La vedova col bambino - una "quasi" recensione
Sul mio passaporto, sotto “luogo d’origine”, c’è scritto: Centovalli. Io però sono nato a Lugano, e quella valle remota del Locarnese l’ho visitata soltanto tre volte. La prima in occasione della festa dei patrizi di Intragna (il capoluogo), parecchi anni fa - il ricordo più vivido sono le scale strette del campanile della chiesa, che ho salito per osservare il panorama in un pomeriggio di sole. La seconda per il Film Festival Centovalli: in una piazzetta gremita durante una calda notte d’estate, ho assistito alla proiezione di un cortometraggio al quale avevo lavorato. La terza visita è cominciata pochi giorni fa, quando ho aperto il romanzo di Daniel Maggetti, La vedova col bambino (Armando Dadò Editore, 2017).
Non mi sono mosso dal divano di casa, ma la sensazione è stata quella di trovare rifugio - dopo una lunga camminata, affamato e fradicio di pioggia - nell’osteria di un villaggio. L’oste mi fa accomodare a un tavolo dove sono seduti tre anziani. Mi salutano cordialmente, mi chiedono da dove vengo, e nel momento in cui mi accingo a mangiare la polenta servitami dall’oste, uno di loro sorride e dice: “lo sai cosa è successo in questa osteria, tanti anni fa?”
Gli anziani cominciano a raccontare: prendono il giro largo, ovviamente, sanno gestire la suspense e “mungere” una storia come si deve, fino all’ultima goccia: mi parlano di una donna, Anna Maria, vissuta nell’Ottocento. Mi dipingono - con pennellate fatte di vita, morte, lavoro, sofferenza, matrimoni, funerali, partenze e ritorni, emigrazioni e segreti, amori e rancori - il quadro di un villaggio delle Centovalli. Le loro storie rimbalzano avanti e indietro negli anni, appaiono nuovi personaggi, ancora e ancora, finché vedo apparire un intricato albero genealogico. Ammetto che ogni tanto mi perdo, tra tutti quei nomi (ma la Limpia è la mamma di chi? E lo Zernùn, non mi ricordo chi è…), ma non importa; anzi, mi godo ancora di più il racconto, mi sento davvero trascinato in un vortice di vite passate, e poi ho una bussola per orientarmi: Anna Maria, che rimane al centro della vicenda. Tutto ruota attorno a lei e a un segreto che si porta nel cuore… Un segreto oscuro, altrimenti gli altri abitanti non la chiamerebbero “vedova nera”.
Passano i minuti, le ore, la polenta l’ho finita da un pezzo, la bottiglia di vino che ho ordinato per i miei cantastorie improvvisati è vuota. È tempo di rivelazioni: scopro la leggenda che grava sul passato dell’osteria, i segreti vengono a galla. Ma quando mi alzo da tavola, ciò che mi fa girare la testa - oltre al vino - è soprattutto la bella sensazione di essere stato trasportato in un mondo saturo di storie, di vite, e di ripartire con un pezzo di passato nel quale non mi sarei mai imbattuto se non mi fossi fermato qui, oggi, in un giorno di pioggia e dopo una lunga camminata.
Chiudo il libro di Maggetti e mi stiracchio sul divano. È la prima volta che visito il mio luogo d’origine senza muovere un passo, ma è anche la prima in cui, appena partito, ho già voglia di ritornarci.
PS: Maggetti, originario delle Centovalli ma trapiantato in Svizzera romanda, ha scritto il libro in francese: s’intitola La Veuve à l’enfant ed è edito da Zoé (2015). La versione in italiano (obbligatoria visti il soggetto e la qualità dell’opera) è arrivata due anni più tardi grazie al lavoro di traduzione di Maurizia Balmelli.